lunedì 8 febbraio 2016

Oggi all'ora di pranzo mangiavo un panino in una piazza vicino a dove lavoro. Seduta su una panchina, con il mio iPhone ed un giornale di gossip.
Leggevo, quando mi sono soffermata a guardare una mamma che passava di lì col suo bambino. Lei avrà avuto forse trent'anni. Capelli castani, piumino nero e scarpe da ginnastica. Lui, non credo arrivasse ai tre. Cappellino di lana grigio, giubbotto blu ed un piccolo zainetto rosso di topolino che con fierezza portava sulle spalle.
Il... bambino trotterellava sempre qualche passo davanti alla mamma, nonostante lei lo invitasse ripetutamente a darle la mano.
Ad un tratto un salto troppo spavaldo per quelle piccole gambine. Il bambino è caduto. Non si é fatto nulla, si è rialzato subito. Ma è restato male.
Si è voltato a guardare la mamma, quasi a dirle:
- Beh, ancora una volta avevi ragione tu.
Lei si è abbassata, in ginocchio ed ha aperto le braccia.
Il bambino ha cominciato a piangere e le è andato incontro.
Era disperato.
Non sentiva male. No.
Non piangeva per quello.
Piangeva perché voleva che la mamma pensasse che si era fatto male.
Piangeva perché aveva voglia di piangere.
Piangeva perché voleva essere consolato.
Piangeva perché desiderava essere stretto.
Lo ha abbracciato quella mamma. Lo ha abbracciato così forte, come se quel bambino stesse provando il più grande dei dolori.
Lo ha abbracciato per dirgli che lei lo abbraccerà sempre. Ogni volta in cui cadrà.
Lo ha abbracciato per dirgli che potrà piangere con lei ogni volta in cui avrà voglia di farlo.
Ho smesso di leggere.
E in quell'istante ho pensato che io di anni ne ho 39.
Ma che non dovrebbero esserci limiti di tempo o di luogo.
Ed ho pensato che tutti abbiamo diritto ad un abbraccio così. Tutti.

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